ADOLESCENCE: QUANDO L'ADULTO HA PAURA DEL RAGAZZO

Daniele Rinaldi


"Andrà tutto bene, vero?". É la frase che il padre del protagonista della nuova serie evento su Netflix, Adolescence, rivolge a suo figlio, appena concluso l'interrogatorio per l'accusa di aver ucciso una sua coetanea. Un padre sconvolto, impaurito e del tutto in balìa degli eventi; non potrebbe essere altrimenti del resto. Non è questo che mi colpisce in realtà.

Immagine tratta dalla terza puntata della miniserie tv Adolescence, disponibile su Netflix.

Quello che mi colpisce e mi preoccupa è che questo padre, questo genitore di un tredicenne accusato di omicidio, non si discosta molto da tanti, tantissimi altri genitori che c'è modo di incontrare e conoscere nel mio lavoro, e hanno tutti una caratteristica in comune: sono terrorizzati dai loro figli adolescenti. Non sto esagerando, il vissuto generale è quello di una totale mancanza di rotta di fronte alla tempesta che questi ragazzi in primis attraversano, ma che per qualche oscura ragione crediamo di dover attraversare anche noi adulti alla stessa maniera. Eppure, dovremmo esserci già passati...giusto?

Nella serie, la narrazione della vita giovanile inglese non è affidata a mezzi termini né a sentimenti ambigui, penso per esempio ad uno dei professori della scuola in cui vengono svolte parte delle indagini: "Questi ragazzi sono impossibili"; oppure ai commenti dei due detective che seguono il caso: "Sembra un recinto per il bestiame". Questa è la presentazione che la serie fa della figura adulta e devo dire che, per quanto grottesca, rispecchi in larga misura la media. 

Il muoversi in modo impacciato dell’adulto nella relazione con il giovane diventa chiarissimo nel corso della terza puntata, interamente dedicata all’ultimo di diversi colloqui tra il protagonista, Jamie, e la psicologa incaricata dal tribunale di svolgere una perizia sul ragazzo. Ad un primo sguardo mi è sembrato un colloquio normale, con la psicologa che conduce competentemente la conversazione come farebbe un normale perito in questa situazione. Eppure dentro di me sentivo come se qualcosa non stesse funzionando, c'era una miccia bagnata tra i due interlocutori che non riusciva ad accendersi. Ho guardato la stessa puntata di nuovo: questa volta mi sono scoperto a identificarmi col giovane accusato, sentendo una forte frustrazione. Sballottato dalla telecamera da una prospettiva ad un'altra, mi ritrovo finalmente a guardare in mezzo ai due interlocutori e a capire cosa sta succedendo: c'è uno che grida e uno che non risponde. Intendiamoci, la psicologa non rimane in silenzio, anzi è molto lesta a controbattere il giovane accusato, con una condotta clinica senza sbavature. Quello che manca è un "Io". Il ragazzino, tredicenne, da poco entrato nel tunnel dell'adolescenza, è molto lontano da una maturità (sia fisica che psicologica) della propria persona, è fortemente turbato da desideri spaventosi che cozzano violentemente con il sistema morale che inizia a crearsi in lui e con le pressioni del gruppo dei pari (un gruppo che non è gruppo reale ma "nube", questi pari non ci sono fisicamente ma vedono tutto attraverso i social). Dall'altra parte una professionista, che il suo "Io" non lo mette a disposizione di quello del ragazzo. Dentro di me si agita una domanda (quella del ragazzo) rivolta alla psicologa: ti prego, avvicinati, fai un passo verso di me. La collega sulla scena però, forte della sua integerrima formazione come psicologa forense e delle sue inappellabili tecniche di colloquio, barricata, arroccata, difesa dalle alte e granitiche mura delle sue competenze, mantiene le distanze e finisce per non capirci niente. C'è solo un momento alla fine del colloquio che fa sperare, quello in cui il ragazzo accetta di dare un morso al panino con formaggio e sottaceti che gli ha portato la psicologa (lui odia i sottaceti); abbassa la guardia, sente che tutto sommato può provare a fidarsi di questo adulto, gli va bene anche così, lontano, fintanto che non lo giudichi come un capo di bestiame. A questo punto succede il disastro: il perito affonda una serie di domande che turbano profondamente il ragazzo, mettendolo di fronte ad un dato di realtà tanto vero quanto doloroso: "Katie è morta, lo capisci? Chiunque sia stato le ha tolto la possibilità di costruirsi una vita". Sono disperato, come Jamie, che per la terza volta grida in faccia alla psicologa, dicendo: “Ma almeno a te io piaccio?”. La puntata finisce così, Jamie viene portato via a forza dalla stanza, l'inquadratura si sofferma sul volto della psicologa che tira finalmente un respiro, ma non è sollevata. Alla prima visione, ho pensato che fosse terrorizzata, come chi ha appena scampato un pericolo mortale; la seconda volta che ho guardato questa puntata, sulla stessa inquadratura, ho avuto invece l’impressione (e sperato) che si accorgesse che tutte le sue tecniche di colloquio non valgono a nulla di fronte a qualcuno che ti chiede, gridandotelo in faccia, di essere riconosciuto.

Credo che il dialogo tra Jamie e la psicologa sia utile per comprendere a grandi linee cosa succede nel rapporto tra l'adulto e l'adolescente quando il primo non rende disponibile la propria mente a quella del ragazzo. Nelle altre puntate della serie traspare anche la motivazione che probabilmente gli autori danno al fenomeno della violenza dilagante tra i ragazzi: i social, la dottrina della virilità alla Andrew Tate o il fenomeno 80 a 20 (l'80% delle donne cerca il 20% degli uomini, per cui il restante 80% degli uomini, quelli non abbastanza ricchi o performanti per essere dei buoni compagni, viene lasciato da parte). Non me la daranno a bere, non ci sto. Non sono né l'esistenza del social network né le lezioni di vita di qualche guru del web a gettare nel disordine (interno, affettivo) la vita dei ragazzi, ma la mancanza di un legame di riconoscimento, per usare le parole di Vittoria Sanese, un legame nel quale l'adulto restituisce al ragazzo un'immagine buona, dignitosa, valevole, interessante di lui. Gli propone cioè un modo di vivere che sia il più possibile all'altezza dei suoi desideri, lo aiuta a tenere alzata l'asticella, a non cadere in facilonerie che non corrispondono all'uomo o alla donna che quel giovane può diventare. Purtroppo spesso anche noi adulti arriviamo alla nostra età già piegati dagli avvenimenti della vita, in alcuni casi si diventa adulti essendo ancora molto adolescenti. Ne è un esempio il padre di Jamie, che fino all’ultimo istante spera con tutto se stesso che suo figlio neghi la realtà delle cose, per salvarsi da un destino segnato già dalla prima puntata. Nei personaggi dei genitori di Jamie sono racchiusi tanti genitori, sì, ma soprattutto tanti uomini e donne che faticano a vivere le loro ferite e le loro zoppie; tutto diventa in qualche modo prestazione, anche il rapporto con le parti di sé di cui ci si vergogna, perché vanno eliminate o almeno nascoste. Il prototipo è l'adulto perfetto perfetto, che conosce le tecniche giuste, che sa uscire indenne da certi scambi scomodi. Per forza di cose poi si tenderà a guardare anche i figli con le stesse aspettative che ognuno vive verso se stesso. I ragazzi invece hanno bisogno di essere guardati e presi sul serio nelle loro domande, senza vacillare, senza paura delle nostre e delle loro zone d'ombra; da questo sguardo autorevole emerge, restituito, l'Io adulto, che può essere messo al vaglio del giudizio dell'adolescente, perché personalmente consideri tutto e trattenga ciò che è buono. Come aiutare l'adulto ad essere promotore di questo sguardo? Come  aiutare l’adulto (a sua volta così devastato e senza mezzi, in una cultura che spezza anche lui) a non soccombere sotto il peso di una disperazione e di una impotenza che lo distrugge a sua volta? Come aiutarlo ad essere quel tipo di figura autorevole che il giovane gli scongiura di essere?

7 giugno 2025
UNO SGUARDO CHE RICONSEGNA L'IO