UNO SGUARDO CHE RICONSEGNA L'IO

Il 4 giugno si sono tenuti, ad Afragola, i funerali di Martina Carbonaro, l’ennesima ragazza brutalmente ammazzata dal suo fidanzato, che va ad allungare la già troppo lunga lista di donne e ragazze che hanno subito questo destino atroce. La dialettica attorno all’evento la conosciamo già, non si è detto niente di nuovo (purtroppo) rispetto alle circostanze psicologiche, sociologiche e pedagogiche di questo fenomeno; basta spulciare sul web una testata online a caso per recepire bene il messaggio generale. Sperando di trovarvi un giudizio fresco ho letto, per quel che sono riuscito a racimolare dalle varie testate sopra dette, l’omelia di Sua Eccellenza Mons. Battaglia, arcivescovo di Napoli. Sua Eccellenza inizia ricordando che, se Gesù Cristo è morto in croce per il genere umano ed è risorto dopo tre giorni, la morte è già sconfitta; non si spreca, giustamente, in facili consolazioni. Poi passa ad un versante diverso dicendo alcune frasi molto significative: “Martina è morta per un’idea malata dell’amore […]. L'amore non è controllo. L'amore non è dipendenza. L'amore vero rende liberi. L'amore vero non trattiene, non costringe, non punisce”[1]; e ancora “Permettetemi di dire una parola, soprattutto ai ragazzi, di dire la mia preoccupazione soprattutto per quelli che non sanno più gestire la rabbia, che confondono il controllo con l’affetto, che pensano ancora che amare significhi possedere. Che vedono la donna come qualcosa da ottenere, da tenere, da non perdere mai. Che se vengono lasciati si sentono umiliati, feriti, e trasformano il dolore in odio. Un odio che uccide”.[2] Quanto detto da Mons. Battaglia rispetto all’amore mi trova completamente d’accordo, l’amore rende liberi. Temo però che parlare di amore in questo caso possa dare adito a fraintendimenti. Alessio Tucci non ha ucciso per amore, perché non poteva sopportare l’idea di vivere senza Martina o per un’idea maschilista e patriarcale di donna-trofeo, ma per lo smacco del rifiuto subito. La differenza è evidente e rende la vicenda gravissima sotto un ulteriore aspetto: questo ragazzo è un povero disgraziato, senza nessuno strumento per vivere le relazioni, che ha agito la frustrazione del rifiuto con la stessa violenza con cui la agiscono, per fortuna senza riuscire nel loro intento, i bambini sotto i tre anni, ancora sguarniti delle strutture psichiche per anticipare le conseguenze delle loro azioni. Mi è venuto da chiedermi: come ci arrivano questi ragazzi (e ragazze) all’età dei primi innamoramenti? Che rappresentazione hanno delle relazioni sentimentali? Che cosa respirano e che cosa gli viene proposto in casa, a scuola, nei gruppi dei pari, nelle società sportive, nei movimenti giovanili in merito al rispetto, al bene, finanche alla venerazione dell’altro/a? Perché queste sono le basi su cui si fondano i loro presupposti sull’amore. Non vorrei essere frainteso, non intendo una proposta nel senso di istruzioni per l’uso (per volersi bene si fa così e cosà), ma nel senso di una trasmissione che raggiunge, invisibile e senza spiegoni moralistici, le antenne sul cuore del ragazzo.

In secondo luogo, sua Eccellenza si è rivolto espressamente ai ragazzi, al genere maschile, che in questo periodo viene comprensibilmente visto come pericoloso. Vorrei sottolineare un aspetto cruciale della vicenda educativa, che non riguarda solo l’adolescente e che mi preoccupa molto, perché vedo che è diffuso: l’idea che l’adolescente, soprattutto maschio, sia fondamentalmente pericoloso. Siamo ciò che l’altro ci restituisce di noi, è sempre stato così e sarà sempre così: reagiamo, obbedientemente, ad uno sguardo definitorio. Se ci relazioniamo con qualcuno con la paura che si comporti in un certo modo, aspettiamoci che lo farà. Questo implica sicuramente un lavoro nel ragazzo, ma serve anche un incontro con un Io forte e sicuro, che intercetti, afferri e strappi il ragazzo a questo giudizio, senza fare sconti; serve un adulto (non basta la maggiore età). Questo ragazzo potrebbe aver bisogno di un adulto che lo guardi negli occhi e gli dica: “Hai fatto una cosa orribile e la ferita di questo gesto te la porterai dietro per tutta la vita. Tuttavia, il gesto in sé non esaurisce la complessità della tua persona”. Questo incontro e questo sguardo, prima li si sperimenta e meglio è, ma non è mai troppo tardi.


Daniele Rinaldi


[1]
 RaiNews.it


[2] FanPage


Autore: Daniele Rinaldi 11 aprile 2025
La nuova serie targata Netflix non è semplicemente una storia di adolescenti, ma una storia di adulti che fanno i conti con ragazzi che gridano per essere riconosciuti.